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lunedì 5 agosto 2013

BLASFEMIA.

Ammesso e non concesso che esista un punitore per questi fantomatici peccati capitali, quante di queste colpe sono realmente attribuibili a noi?
Secondo la scienza siamo frutto dell'evoluzione, secondo la religione siamo una scelta del Signore.
Una scelta azzardata visti i risultati discutibili, ma nessuno è immune dagli errori.
Quattro piccoli medaglioni, rappresentanti la Morte di un peccatore, il Giudizio Universale, l'Inferno, il Paradiso, sono disposti agli angoli della tavola, circondando un cerchio più grosso dove sono raffigurati i vizi capitali e, nella "pupilla", Cristo che si erge dal proprio sepolcro, entro un fascia di raggi dorati che simboleggiano l'occhio di Dio. Sotto questa figura, si nota una scritta in latino: "CAVE CAVE DEUS VIDET" (Attenzione, attenzione, Dio vede ).Le sette scene dell'"iride" mostrano questi peccati capitali ciascuno con la propria indicazione in latino: in basso si trova l'ira, poi in senso orario Invidia, Avarizia, Gola, Accidia, Lussuria e Superbia.
Perché il Santissimo, dovrebbe aver dato vita a una specie vivente capace di commettere tali errori?
Il libero arbitrio è solo una scusa discolpante, visto che ci è impossibile scegliere di non peccare...
Anche il Papa è un peccatore.
Lussuria: è ricco da fare schifo e vive nei ricami d'oro e nei troni che valgono più di casa mia.
Superbia: anziché prostrarsi ai piedi degli altri, viene lodato come fosse lui stesso un Dio dimenticando che è solo un portavoce che dovrebbe comportarsi nel modo più simile possibile a Cristo, così da dare l'esempio.
Gola: con decine di cuochi dietro, è difficile per un signore anziano darsi una regolata nell'alimentazione.

Perché esser incolpati di un qualche peccato, quando è stato lo stesso Cristo a darci la possibilità di errare?
Adamo ed Eva si trovarono di fronte ad un serpente che parla in un albero di mele piantato dal Santissimo.
Non fu Cristo dunque, a indurci nell'errore?
Il consiglio di non mangiare la mela, una pacca sulla spalla e amici come prima. Ma per favore!
Scegliere tra il vivere sotto la schiavitù di un Dio, in un noioso prato abitato da sole due persone, pieno di regole e di punizioni se infrante e completamente ciechi. O scegliere una vita di bivi la cui meta è una posizione orizzontale nella bara pagata anche cara dai nostri familiari.
Non potevamo avere una qualche opzione migliore?
Condannati in un prato o condannati in terra.
E' Dio il vero peccatore.
Avaro e meschino tenne per lui il segreto della resurrezione, agevolando solo se stesso quando fu il momento.
Non ci insegnò a moltiplicare i cibi o trasformarli, così da ridurci a combattere per un pezzo di pane e morire di fame o di sete.
Non ci insegnò a camminare sull'acqua, così da spazzarci via con il diluvio universale.
Non ci spiegò cosa sarebbe successo peccando, così che noi capimmo di poter solo stare meglio vivendo alla giornata.
Tenne per se tutta questa sapienza e saggezza che tanto vantava, usando le sue doti da bravo esibizionista e rendendo così la sua immagine unica.
E' colpa sua, non nostra.

martedì 30 luglio 2013

Paranormale (Story) quarta parte

Sono sempre stato l'elemento da evitare in un gruppo.
Ero quello che nella foto di gruppo teneva gli occhi chiusi ed ero quello che non capiva l'orario della cena di classe così da arrivare che tutti mangiavano.
Però fui felice sotto più aspetti: mi sposai, ebbi due bellissime bambine, e un meraviglioso cagnolino che tutt'ora abbaia nei miei pensieri.

Varcai la soglia dell'ultima stanza del terzo piano, - l'area proibita e sconsigliata -.
Io posso assicurarvi che mentre camminavo verso quella ambigua meta, dentro la mia testa echeggiava una voce amica che mi indicava la via. Ma posso assicurarvelo ora, li per li non ci stavo tanto con la testa...
Entrai e non capirò mai come, ma venni accolto dalla luce artificiale di un mucchio di lampadine situate in un lampadario appeso nel soffitto. C'era la corrente, ed era in piena funzione da chissà quanto visto che di interruttori, non ne avevo vista l'ombra.
Chiusi la porta alle mie spalle lasciando fuori la tenebra regnante.
Era una grande camera da letto le cui pareti presentavano numerosi quadri risalenti a chissà quali antenati locali. Nell'angolo della parete di fronte a me, a sinistra, vi era un grosso specchio la cui cornice bronzea deliziò i miei stanchi occhi.
Un letto ben fatto partiva dal muro esattamente opposto, decorato anche da numerosi disegni di vari colori spenti.
Nonostante l'ovvio poco uso di essa, quella stanza non presentava un filo di polvere bensì appariva fresca e curata, con un'accogliente odore di pulito e una rinfrescante aria fresca ben respirabile.
Mi avvicinai al letto così da testarne il materasso.

Ricordo che era Natale quando successe.
La vigilia, precisamente.
Le due bambine giocavano col cane, mia moglie stava preparando l'abbondante cena e l'atmosfera allegra e festosa regnava incontrastata in quella piccola casa tanto amata da tutti noi.
Ricordo che ero in bagno, e poi in salotto, e poi ancora in bagno: si... Stavo male di stomaco.
Fu un attimo, solo mezzo secondo e tutto prese ad illuminarsi vistosamente.
Erano quasi le otto e non saprò mai cosa avvenne veramente.
In quell'incendio: non persi solo la casa, la cena, la festività o il set di mazze da golf nuovo... Vidi ardere vive le mie bambine, vidi il terrore nei loro piccoli occhi spalancati. Vidi il nostro quadrupede felice correre fuori dall'abitazione e non far più ritorno, era illeso per fortuna.
Era finita. La mia vita era finita.
Svenni per il fumo e ripresi conoscenza giorni dopo sul letto d'ospedale. Erano stati trovati i corpi carbonizzati delle piccole, il cane era stato trovato morto per asfissia poco distante e il cadavere di mia moglie sicuramente era sotto le macerie da qualche parte, nonostante ancora non fosse stato rinvenuto.
Rimasi solo.
Inutile descrivervi i percorsi psichiatrici, psicoterapeutici, gli episodi deliranti e depressivi che ne seguirono.


Mi stesi sul materasso poggiando la testa sul cuscino coperto dalla coperta dal pesante tessuto.
Socchiusi gli occhi respirando a pieni polmoni e lasciando la paura, fluire fuori dal mio corpo stressato e ferito. Sentii ogni muscolo sciogliersi, il cuore che calava i battiti, la testa che pulsava di meno. Sentii sollievo, sentii buon umore.
Poi cominciai a sentirlo.
Era un profumo molto acuto ma estremamente lontano: un odore familiare e di buon gusto.
Mi alzai a sedere, e poi in piedi. Andai verso quello specchio che già dall'ingresso aveva attirato la mia attenzione, e nel farlo, non gli tolsi gli occhi di dosso.
Mi specchiai.
La prima cosa che notai fu il riflesso mancato: non c'ero io. Non c'era nessuno in quel vetro riflettente.
Subito dopo comparse una sagoma, poi una persona. Mi riconobbi.
Era strano... Era come se l'immagine fosse liquida, priva di massa e alquanto distorta.
Mi avvicinai scettico e quando lo feci, l'immagine di una donna comparve accanto al mio riflesso... Più precisamente, era alle mie spalle.
Ricordo che le chiesi chi fosse, e ricordo che attesi qualche buon minuto prima di ricevere risposta.
Aveva il volto coperto da un cappuccio ma dalle curve sinuose del suo corpo, e dai boccoli che fuoriuscivano da quel cappotto scuro, avrei potuto metterci la firma riguardo l'indiscussa femminilità e bellezza.
La voce era seguita dall'eco nonostante la mia non lo avesse.
Mi rispose che sapevo già la risposta, seguendo poi con una piccola risatina.
D'un tratto, uscii dallo stato semi-ipnotico in cui mi sentivo e cominciai a formulare l'ipotesi più assurda e stravagante che mi fosse mai balenata per la testa.
Quando le chiesi se era chi pensavo fosse, la mia voce tremò notevolmente tanto da farmi pentire di aver posto quella domanda.
Non poteva esser lei, non poteva esser mia moglie. Era morta nell'incendio, era bruciata viva insieme alle piccole. Era...
Quando si tolse il cappuccio ogni "era" scomparve, sostituito da un'irrefrenabile voglia di gridare di felicità e paura.
La donna che avevo portato all'altare era alle mie spalle, e io la stavo guardando tramite il riflesso di uno specchio liquido in una stanza con la corrente all'interno di un castello infestato e senza luce.
Interessante!
Mi voltai e con un mix di stupore, felicità, paura, tristezza e non so quali altre emozioni, feci per stringerla.
Prima lo specchio liquido, ora una moglie deceduta aeriforme.
Strinsi il niente e le passai attraverso senza però intaccarne la bellezza e la compostezza...
Mi girai allibito e lei con un mezzo sorriso mi beffeggiò chiedendomi cosa mi aspettavo da una morta.
Non ci capii niente.
Passai qualche istante in perfetto silenzio per poi balbettare spiegazioni.
Era morta il giorno dell'incendio, ma non a causa del fuoco visto che l'aveva appiccato lei stessa.
La vita le era stata tolta per mano autolesionistica.. L'impiccagione dovuta ai rimorsi di aver incendiato una famiglia intera.
Sembrava tranquilla, in pace e in perfetto agio.
Fu li che scoppiai a piangere come un bambino...
Il passato che credevo di aver superato era in realtà più vivido che mai, la donna che credevo di aver sposato non era altro che una ex omicida ora fantasma, le mie bambine non erano state vittima di un incidente ma di un omicidio la cui "preda" dovevo esser esclusivamente io.
Aprii la finestra.
Tre piani non sono pochi, ma quando la fortuna ce l'ha con qualcuno, c'è poco da fare o dire.
Mi schiantai al suolo del prato esterno al castello a un'elevata velocità, perdendo i sensi ma non la vita.
Quando mi risvegliai ero nuovamente nel letto d'ospedale.
Avevo perso l'uso delle gambe.
Nei giorni seguenti persi ogni forma di reputazione viste le vicende che avevo vissuto che, secondo gli altri, erano fandonie.
La mia dignità andò a mancare colpita dalla consapevolezza di aver fallito come marito e come padre.
Tutt'ora, a distanza di quindici anni, non riesco a muovere le quattro dita della mano sinistra nonostante non vi sia nessuna frattura né arrossamento della pelle.
Ho una mano esteticamente perfetta e dall'ossatura intatta, inutilizzabile senza un motivo preciso. I medici non ne hanno la più pallida idea.
Non saprò mai perché tutto ciò avvenne, non saprò mai perché lei voleva farmi fuori, non saprò mai se qualcun'altro ha vissuto ciò che ho vissuto io dentro quelle mura o altrove.
Non tornai mai più in quel castello.
In quell'inverno sono morto dentro, e non rinascerò più.
Mai più.

Paranormale (Story) terza parte

Non so dirvi perché ce l'avevano tanto con me.
Forse avevo violato la loro dimora, forse si annoiavano, forse ero sotto certi aspetti impuro per i loro famelici gusti.
Era arrabbiato e io ero in pericolo, solo che ancora non lo sapevo...
Quella notte la passai nella mia camera, non vi dico che dormii bene perché non chiusi occhio.
Le immagini più disparate si facevano largo nella mia fervida immaginazione: film visti da adolescente, storie lette o raccontatemi da amici ormai dimenticati, fantasie fatte nelle notti più agitate.
Non sapevo come uscirne... Non conoscevo la zona quindi uscirsene da soli dal castello era poco consigliato, il cellulare era scarico da quattro giorni e come ho detto non vi era corrente e non c'erano telefoni fissi per lo stesso motivo.
In pratica ero bloccato in un castello disabitato, in compagnia di chissà quanti demoni o fantasmi che si divertivano ad usarmi come preda per chissà quale sporco gioco.
Mi pare di ricordare che verso le quattro del mattino, una volta messo a sedere sul materasso, presi a studiarmi la mano violacea.
Non ricordavo benissimo cos'era successo dentro quella cantina ma ciò di cui ero sicuro, era che di certo non avevo fatto movimenti così letali per la mia povera mano, né ricevuto botte di questo calibro...
Mi sciolsi l'ingessatura improvvisata accompagnando i movimenti con una visibile smorfia di dolore; presi a studiarmi la gonfia e colorita pelle che ricopriva quelle povere e ormai morte nocche.
Non riuscivo a muoverla manco un pò ed era frustrante visto che nella situazione in cui mi trovavo, avevo bisogno di tutto l'appoggio possibile dal mio corpo non allenato.
Osservai il palmo, poi dorso, poi ancora palmo. Non vi era spiegazione... Avevo quattro dita rotte e non me ne capacitavo.
Poggiando delicatamente il polso sul materasso, mi distesi cercando di rilasciare tutta la stanchezza accumulata nei giorni precedenti: quello che volevo era solo dormire e svegliarmi con la mano a posto, il solito sole allegro e un sorriso a trentadue denti. Consapevole del fatto che era stato tutto un brutto sogno, ovviamente.
Erano forse passati trenta minuti quando lui mi svegliò.
La coperta che nascondeva il mio corpo fino al collo venne strappata via e lanciata in fondo alla stanza, la finestra si appannò completamente e tutte le ante degli armadi, porta della stanza compresa, si aprirono di botto provocando un frastuono allucinante.
Una folata di vento mi colpì in pieno volto e con essa, la voce più tetra e grave che avessi mai udito.
"Non puoi, non qui!". Ricordo che mi gridò questo, ricordo che me lo gridò a un centimetro dalla faccia e ricordo che non vidi niente ma la sensazione di avere un volto davanti, era più forte di qualunque altra cosa.
Io ricordo solo che il dolore della mano sparì, coperto dal più totale terrore.
Sbattei la schiena contro lo schienale del letto, quasi a volermi allontanare da quella mostruosa entità.
Le ante e la porta si chiusero seguite dallo stesso botto di quando si erano aperte, i vetri tornarono lucidi di colpo e la coperta mi venne lanciata nel volto.
Io non so cosa avvenne quella notte, so solo che non riuscirei manco volendo a descrivere il terrore che provai... L'impotenza era completa e non vi era speranza. Non ne avevo più.
Forse svenni, non lo ricordo bene.
Non so nemmeno quanto tempo dopo mi svegliai.
Forse era passato un intero giorno, forse due, forse solo qualche ora: era però giorno ed era caldo.
Aprii gli occhi e la prima cosa che notai, fu l'orologio fermo alle 4:42 del mattino. Anche quello che tenevo al polso era bloccato in quell'orario insolito... Che fosse stata quella l'ora in cui ero stato "minacciato" ?
Mi guardai intorno intontito, la mano era più gonfia e viola di prima e rimettere a posto l'ingessatura fu veramente dura.
Non so perché ma lo sguardo mi cadde sul foglio da disegno che mi aveva spaventato giorni prima... Io ero sicuro che oltre all'armatura vi fosse l'ombra di un bambino nel muro. Ne ero certo! Eppure non ve n'era traccia... Ora somigliava in tutto e per tutto al mio disegno effettivo.
Quando la speranza ti lascia, perdi la voglia di fare tutto; non sei veramente vivo ma non sei manco veramente morto. Sei solo in piedi, lì, intento in qualunque cosa tu stia facendo, senza però sapere il vero motivo per cui lo fai. Mangi, ma potresti non farlo. Dormi, ma potresti non farlo. Vivi, ma potresti non farlo.
Non c'è scopo.
Non c'è rimedio.
Non c'è niente.
Imboccai il corridoio come un sonnambulo e, camminando scalzo, raggiunsi le scale.
Scesi al terzo piano: era proibito.
Secondo il calendario dovevo rimanere in quel castello ancora tre settimane, quattro gironi e qualche ora, secondo la mia testa non avrei retto altre dodici ore.
Era buio, ma non avevo a che fare con una tenebra impenetrabile bensì con un flebile gioco di luci provenienti dall'esterno, e ombre viventi all'interno.
Ai piedi dell'ultimo scalino partiva il fresco tappeto rosso, che copriva il solito parquet dell'ennesimo interminabile corridoio.
Ero nella zona sconsigliatami dal datore di lavoro, ciò che non riuscivo a capire era il motivo e dunque, date le mie voglie morte di vivere, tanto valeva andarsene con una soddisfazione. Una sola.
Cominciai a percorrere il corridoio verso la porta che si intravedeva nel fondo.
Era un minuto ingresso, ma ciò che mi insegnò, è che non si deve mai seguire la curiosità: è indice di male, peccato di gola, è sbagliato.
Io sbagliai. Aprii quella porta, e facendolo, mi condannai.
Era finita.

FINE TERZA PARTE.

lunedì 29 luglio 2013

Paranormale (Story) seconda parte

Ero in quella cucina da solo, in quel castello disabitato, in quella collina vuota, in quella zona deserta, e qualcosa aveva appena pronunciato il mio nome.
Non avevo mai preso in considerazione la possibilità di un fenomeno paranormale, dato che se ci avessi pensato, non avrei accettato così allegramente questo lavoro. Nonostante l'ottima paga.
Ricordo che quella fu una delle giornate più lunghe della mia vita.
Io non avevo il coraggio di aprire quella porta nonostante fosse l'unica cui potevo accedere, vi spiego: il castello era diviso in tre aree.
L'area uno comprendeva una parte del primo e secondo piano, e quattro stanze del quinto.
L'area due comprendeva il resto del primo piano, tutto il quarto piano e l'altra parte del quinto.
L'area tre comprendeva il resto del secondo piano e tutto il terzo, era a me proibita.
Non seppi mai né perché era diviso in tre, né perché avevo accesso solo a due parti, quello che so, è che in quella cucina c'erano due porte: una portava all'area uno e l'altra all'area tre.
Ero dunque di fronte a un bivio: infrango le regole addentrandomi in una zona sconosciuta e "sconsigliata" -così l'aveva presentata il mio datore- , o affronto il corridoio dietro la porta dal quale era provenuta la voce tanto fredda?
Scelsi di non scegliere.
Pulito lo schifo sul tavolo, sparecchiai e lavai i piatti da me usati; non era una cosa che amavo fare ma mi era d'obbligo. Le finestre enormi permettevano alla luce solare di illuminare la stanza, e al contempo tenermi compagnia. Amavo il bel tempo.
Quattro ore dopo, -lo so perché l'orologio a pendolo era tutto ciò che avevo da guardare- invaso dalla noia, decisi di tirare a sorte. Il famoso ambarabaccicciccoccò mi consigliò di tornare all'area uno, ma la paura consigliò l'opposto così provai, incoraggiato dalla piccola voce nella mia testa che ripeteva "non c'è niente che non va, è solo la solitudine", ad aprire la porta proibita.
Non c'erano chiavi in quel castello. In nessuna porta, manco nei bagni ed è un'altra cosa che non capirò mai.
La cosa divertente, è che non c'erano manco serrature.
Scricchiolante, lenta e pesante, si aprì. La luce solare entrò appena in quel buio pesto che mi accolse...
C'era odore di chiuso e molta, molta polvere. Lo so perché le mie narici protestarono procurandomi due potenti starnuti: di quelli che ti portano a ridere nelle serate con gli amici.
La mano destra reggeva il candelabro, la sinistra e non so come mi venne in mente, un coltello per il pane.
Mi faceva sentire al sicuro, forte e magari anche un pò figo.
Le candele mi rivelarono la verità su quella stanza, e devo ammettere che rimasi alquanto deluso: era una cantina... Vini di ogni genere occupavano le tre pareti restanti. Erano tutti coperti da grossi strati di polvere e molti presentavano anche ragnatele voluminose.
Abbassai l'arma e sorrisi dandomi dello sciocco: come avevo fatto a spaventarmi per così poco? Stupide voci causate dalla solitudine, stupidi attacchi di freddo magari dovuti a cali di pressione e aree private che nascondevano solo buoni vini. I padroni tirchi volevano sicuramente preservare la loro collezione da ricconi.
Risi pensando a quel panzone di un datore di lavoro che aveva definito "sconsigliata" l'area tre, risi pensando a quel castello abitato solo da ragni e insetti, risi pensando a quanto dovevo esser ridicolo ad aver paura di una cantina grande quanto un bagno.
Poi qualcosa rise con me e io smisi di farlo.
Non somigliava alla voce udita ore prima, non somigliava a una voce umana, non so manco se somigliasse a qualcosa visto che rimasi shoccato dal sentire che proveniva dalle mie spalle.
C'era qualcosa, ed era esattamente dietro di me.
Lentamente mi girai, l'espressione che assunsi credo possa esser paragonata a un pesce lesso...
Notai che non c'era niente, ma a quel punto mi era chiaro il fatto che o ero diventato pazzo, o qualche fantasma era venuto a farmi visita.
La porta si chiuse di scatto e la folata di vento causata da essa, spense tutte e cinque le candele del mio candelabro... A quel punto sollevai il coltello davanti a me ed iniziai a gridare. Credo d'aver chiesto chi c'era o qualcosa del genere, ma non ne sono sicuro ormai.
L'eco della risata continuò sempre più forte anche se ormai mi era impossibile capire la posizione della fonte...
Il timbro vocale aumentò di volume, e ancora, ancora e ancora fino a tornare a zero di colpo.
Il mio udito era partito di nuovo e questa volta la testa mi scoppiava...
Iniziai a piangere e con le lacrime, caddero anche le candele e l'arma.
Ero al buio in una cantina di un castello infestato, in compagnia di un qualche essere ridente che per quanto ne sapevo, poteva uccidermi da un momento all'altro.
Mi accasciai in terra: le mani a coprire le orecchie, gli occhi sigillati, i denti serrati e le ginocchia rannicchiate...
Poi, accadde.
La porta si aprì lentamente permettendo a una flebile luce l'ingresso nella cantina, mi ci volle qualche minuto per realizzare ciò e appena il cervello mi tornò a funzionare, gattonai fuori con una rapidità ai limiti dell'umano.
Sbattei la porta e tornai alla zona lavandino in cui mi lavai repentinamente la faccia impregnata di polvere e bagnata dalle lacrime tutt'ora sgorganti... Poi, un dolore lancinante si impossessò di me.
La mano sinistra, all'altezza delle nocche, era di un viola intenso.
Mi resi conto di non riuscire a muovere le quattro dita soprastanti e non mi ci volle molto per capire che erano tutte rotte tranne il pollice.
La frattura non era scomposta fortunatamente, e il "come ho fatto a romperle" passò in secondo piano visto che il male che mi faceva era acuto e continuo.
La testa non aveva smesso di pulsare il ché coprì in me la consapevolezza che l'udito era tornato chissà da quanto... Misi la mano sotto l'acqua gelata e al contempo mi guardai intorno alla ricerca di qualcosa con cui improvvisare un'ingessatura.
La mia carriera artistica finì quel giorno.
Non mi ricordo cos'altro successe in quella giornata, so dirvi con certezza che l'ingessatura fu una garza bella spessa e varie stecche che irrigidivano la mano dal polso alla punta delle quattro dita.
Un pò ridicola, primitiva e poco resistente, ma era meglio di niente.
So dirvi anche che quella notte la passai in cucina e che non cenai ne feci colazione il giorno seguente.
Non ricordo se dormii o no, son sicuro di ricordare che non ci furono altri eventi strani: né quella notte, né fortunatamente il giorno seguente.
Forse ora riderete ma... Passai anche le 24 h successive in quella maledetta cucina. Non osavo manco pensare alla possibilità di tornarmene al quarto piano visto che non volevo più avere niente a che fare con gli spiriti.
Due giorni dopo la rottura della mano e la scoperta della cantina, feci il grande gesto di aprire la porta - con molta cautela- che portava alle scale con cui tornarmene alla camera.
Ero terrorizzato e manco respiravo bene, ma con la forza della disperazione si fa tutto, credetemi.
Così raggiunsi e salii le scale.
Così arrivai al quarto piano.
Così mi incamminai per il corridoio nel quale avevo fatto il disegno giorni prima.
Così lui si arrabbiò.

FINE SECONDA PARTE.

Paranormale (Story) prima parte

Questione di vita o di morte.
O meglio: questione di morte.
Il castello non era difficile da raggiungere visto che la strada era stata rifatta da poco e, nonostante le curve di tanto in tanto pericolose, con una moderata velocità si poteva arrivare alla meta senza difficoltà.
Ricordo che era inverno. Mi ritorna alla mente la leggera nebbia che aleggiava intorno al perimetro delle fiere mura, bagnate di tanto in tanto da una pioggia fredda e fitta.
Il quarto piano era il "mio".
Non era casa mia, ero solo il custode.
Il conte cui apparteneva questa dimora era morto anni prima e la famiglia ereditaria non veniva mai se non per qualche vacanza estiva.
Quel castello mi cambiò la vita e non c'è niente, ormai, che io possa fare per tornare quello di prima.
Vi racconterò cos'è successo: non posso mettere dettagli nonostante alcuni siano rilevanti.
Io non so se fu reale o tutto frutto della mia immaginazione: magari sono pazzo. Ciò che so è che persi l'uso delle gambe, persi la mia reputazione, persi la mia dignità, persi la mia voglia di vivere e persi anche il mio passato. Tutto ciò in cui credevo, in cui speravo e tutto ciò che sostenevo, rimase dentro quelle imponenti mura.
Sono passati quasi quindici anni da quell'inverno e tutt'ora il mio sonno viene disturbato da Loro.
Io non ero solo.

La pioggia incessante batteva contro le finestre coperte da tende di velluto bianco. Non era una notte nebbiosa, eppure non potevo vedere oltre il riflesso del mio volto a causa del buio pesto che vigeva in quella zona collinare.
Quando mi diedero il compito di vegliare sul castello mi sentii lusingato: ero protetto da quel capolavoro architettonico e sicuramente, nonostante la solitudine, non mi sarei annoiato visto che amavo lo stile gotico e c'era tanto, tanto da vedere.
La prima settimana passò liscia come l'olio ed ero sempre più esaltato dal mio nuovo impiego. C'era sempre qualcosa da vedere, qualche corridoio strano da percorrere e qualche statua da disegnare.
Amavo disegnare.
Imprimere in un foglio, una tela o una qualunque superficie, qualcosa di eterno. Mettevo tutto me stesso in quelle opere e devo ammettere che ero anche bravino. Le quattro dita rotte che riportai in seguito mi bloccarono e da allora non presi più una matita in mano.
Ricordo la prima volta che uno di loro si fece vivo. Erano le 22:00 e stavo ritraendo un'armatura ornata da ragnatele, in un f4. La matita, mi pare di ricordare, era una semplice HB e devo ammettere che stavo andando alla grande.
Non c'era corrente in quel posto ma non ho mai capito il motivo, forse per i costi elevati.
Ero nel corridoio B: lungo circa trenta metri, con due stanze nella parete destra e dodici armature nella parete sinistra. Il tappeto rosso copriva lo scricchiolante parquet e due lampadari spenti pendevano dal soffitto. Erano enormi.
Io nel mio piccolo me ne stavo seduto di fronte alla quarta, o forse era la quinta, armatura, armato di matita e gomma. Alla mia destra una candela, alle mie spalle altre tre.
Avevo anche una lanternina momentaneamente spenta tra le mie gambe.
Ricordo il suono della mina che scorreva sul foglio bianco, ricordo che era chiaro e forte in mezzo a quel silenzio opprimente. Poi, ricordo che iniziai a non sentirlo più.
C'era solo un flebile fischio tant'è che smisi di disegnare e infilandomi un mignolo nell'orecchio destro, cercai di ripristinare il mio udito in tilt. Ero momentaneamente sordo, senza un motivo preciso.
Mi alzai allarmato e fu la che lo vidi: era in fondo al corridoio, ed era estraneo.
Le candele giocavano con le armature dando vita a danzanti ombre sparse qua e la. Ma quell'ombra non era normale e prima non c'era. Nella parete terminante, vi era la distinta sagoma di un piccolo essere: forse un bambino... Forse. Era fermo, braccia lungo i fianchi, ed era spettinato.
Mi girai di scatto per vedere se fossi in compagnia ma non vidi nessuno. Le orecchie pulsavano, la testa iniziò a far male. "Chi c'è la?", ricordo che lo dissi ma non udìì la mia voce dunque non so bene se gridai, sussurrai o se immaginai solo di averlo chiesto.
Quando tornai a guardare la parete, l'ombra non c'era più e con la sua scomparsa, tornò il mio udito.
Tremavo visibilmente, questo lo ricordo bene. Presi il foglio di carta e una candela e a passo svelto me ne tornai in camera. Mi buttai sul letto ed accesi la grossa lampada che mi era stata dai proprietari del posto.
Mi ci volle un pò per calmarmi, ricordo il cuore che tentava di sfondare il petto e il mal di testa incessante.
Mi addormentai.
Non ricevevo visite e non parlavo con nessuno da oltre sette giorni, dunque era normale avere "visioni": fu così che giustificai ciò che avevo visto... Anche se non mi spiegavo la perdita dell'udito.
Convinto di aver vissuto un sogno troppo reale, mi alzai dodici ore dopo colpito dalla mattiniera luce solare in quella finestra ormai asciutta.
Strofinatomi gli occhi posi lo sguardo sull'f4 e fu la che realizzai quanto era successo.
L'armatura non era come l'avevo disegnata, o meglio, era lei, ma non come me la ricordavo.
Il disegno era identico al mio, ma nello sfondo, quel muro, presentava ancora quell'ombra di bambino...
Tornai a tremare forse più forte della sera prima e lasciai cadere il pezzo di carta in terra.
Nessun fenomeno si ripeté più per altri tre giorni, ma poi ri-accadde qualcosa: forse erano le 8:00 o 8:10, non so dirvi di preciso ormai... Stavo facendo colazione al secondo piano quando dalla porta nella parete di fronte a me, udii una risata con tanto di eco. Era lontana e sembrava avvicinarsi...
Rimasi immobile a fissare quell'ingresso chiuso, non riuscivo nemmeno a masticare la fetta di pane che avevo in bocca. Quella voce si avvicinava e continuava a ridere, ridere e ridere. Ormai era arrivata a destinazione quando si fermò. Ricordo che sentii freddo, la pelle d'oca fu repentina e fui sicuro che dietro quella porta, qualcuno esitava ad entrare. Ne ero maledettamente certo!
La voce ridente pronunciò il mio nome, per poi sparire portandosi con se il freddo pungente.
Vomitai.
Il terrore e l'adrenalina si impossessarono del mio corpo, le gambe a stento tennero il mio peso tanto che per reggermi, dovetti poggiare le braccia sul tavolo sporco di cibo mezzo digerito.

FINE PRIMA PARTE.

martedì 23 luglio 2013

Violenza sulle donne

Combattere ad armi pari non è una pratica adottata da molti esseri viventi.
La cosa vale sia nel regno degli animali: quando ad esempio un branco prende di mira una sola preda, sia nel regno degli umani.
Abbiamo sempre gli infami che se la prendono con i più deboli.
In ambito politico, nei gruppi di amici e purtroppo nelle relazioni.
Non sono maschilista, ma ciò che sostengo è che in una coppia, purtroppo e per fortuna, l'uomo tiene la forza bruta mentre la donna conserva l'intelligenza.
Questo ovviamente è un prototipo.
Abbiamo anche coppie in cui la femmina prosperosa e palestrata, se ne sta con un rachitico individuo.
O ancora coppie in cui l'uomo ultra intellettuale si sposa una rimbambita bambolona viziata.
Nonostante ciò, mediamente Lui porta le buste della spesa e Lei sceglie i cibi utili e inutili.
Questo aspetto è utile sotto molteplici punti di vista, ma quando si è di fronte a un individuo dotato di membro, dalla poca intelligenza, diventa problematico.
La ragazza, moglie o quel che è, può cornificare o esser cornificata. Può mancare di rispetto esattamente come può ricevere offese dello stesso tipo. Può gridare e le si può gridare contro.
Uno schiaffo però dato DA una femmina, non sarà mai paragonabile ad uno schiaffo dato DA un maschio.
Qui i piattelli della bilancia perdono l'equilibrio e si entra nel discorso chiamato "scorrettezza".
Un Lui che prende una sberla potrà riportare quaranta secondi di calore nel volto, un poco di rossore e al massimo un graffietto causato dalla manicure resistente.
Una Lei che viene colpita, potrà presentare violenti arrossamenti come lividi di ogni genere e dimensione. Rischierà di cadere mettendo in pericolo l'incolumità della sua persona se non la vita.
Verrà ferita dentro e fuori e non ci sarà scusa che tenga.
Picchiare una ragazza, qualunque sia il motivo, non è un'opzione possibile e valutabile; ci si può dire tutto, si può fare di tutto e si può reagire in qualunque modo. Ma entro dei limiti...
Ora potrebbe sorgere il dubbio dello schiaffo ricevuto: "Una ragazza mi alza le mani e io non devo reagire?".
Esatto. Non devi reagire.
Rispondi! Insultala per rabbia, vattene in un bar a bere una birra ghiacciata così da far scendere la rabbia, esci con l'amico di sempre e guardate i sederi delle passanti intente a fare shopping.
Ma NON rispondere con la stessa moneta. Cretino.
Un uomo che picchia una donna non è un uomo. Non merita una donna e non merita di stare dove sta.
Queste sono parole dette da un essere di sesso maschile.
Buona serata

sabato 20 luglio 2013

Perché questo blog?








Non sono un genio, non sono particolarmente bravo a scrivere e non sono di certo uno che promuove qualche progetto o idea strana.
Sono un semplice ragazzo mai andato bene a scuola e che tutt'ora non primeggia all'università di psicologia.
Amo però pormi domande strane quali: cos'è l'infinito, cosa accadrebbe se un buco nero fosse l'accesso a un'altra dimensione, cosa potrebbe nascondere il nostro cervello, cosa c'è prima della vita e dopo la morte..
Domande grandi, domande impossibili da provare e le cui risposte sono sempre incerte.
Tutto ciò che si può fare è formulare delle ipotesi e quando si parla di quest'ultime, ogni cosa è valida e veritiera. Non esistono ipotesi probabili o improbabili visto che tutto è possibile e visto che ogni cosa testata, un tempo, era un sogno, un progetto, una fantasia o qualunque altra cosa associabile alla parola "improbabile".
In pratica: uno schizzofrenico che in mezzo a una piazza vede un fantasma, può esser l'UNICO SANO di tutta quella parte di città. E' possibile che lo spirito ci sia veramente ma visto che solo lui ha la capacità di vederlo, viene definito schizzato, pazzo, diverso e così allontanato, discriminato, beffeggiato.
Verrà "aiutato" da persone che, magari, sono più indietro di lui dunque dovrebbero ricevere l'aiuto che danno.
Perché aprire un blog?
Perché se si espongono certe idee si viene spesso presi alla leggera, non ti ascoltano. Le persone aspettano il loro turno per parlare e quando arriva, rispondono alla prima cosa che hai detto visto che mentre dicevi il resto, erano troppo impegnati a ripetersi ciò che volevano affermare.
Questo spazio, bianco su nero, è il MIO spazio e se si entra lo si fa senza sapere di cosa voglio parlare.
Ogni commento, idea, critica, saran sempre ben accetti ma prima avrete finito di leggere il post. Quindi il "vostro turno" non esisterà. Non qua.
Potete credermi pazzo, limitato, stupido e delle volte strano: ma credetemi quando vi dico che se siete qua a leggere ciò che scrivo, se scorrete le parole e le frasi una ad una arrivando in fondo allo scritto... Beh, siete strani anche voi.
Piano piano questo nuovo piccolo blog crescerà e le idee diventeranno fonte di confronto, dialogo e pensiero. Sarà interessante.
Fino ad allora, continuerò a delirare per conto mio basando i miei argomenti sull'andamento della giornata e sulla voglia che ho.
Grazie a voi che mi seguite, alla prossima!